Londra, 6,30 del mattino. Squilla il telefono. Sul display
un nome senza cognome, dall’altra parte un pianto dirotto, poche parole incomprensibili.
Era la telefonata che prima o poi sarebbe arrivata.
Sono a Londra da un anno e non ho mai visto un carro
funebre, un funerale, qualcosa che mi abbia fatto capire che lì in quella casa,
in quel palazzo, in quella chiesa si stesse consumando un dolore. Non c’è posto
per questi riti e per le manifestazioni emotive che ne conseguono, in una
città come Londra. Un po’ come, primi giorni da universitario romano, mi recai
a far visita, come si usa da noi, per
la morte di un padre di un mio compagno di posti all’università
(facevamo insieme i turni per prendere i posti alle 6 del mattino altrimenti il Prof lo
vedevi con il binocolo dagli spalti in montagna dell’aula 1) e scoprì che il concetto di “morto” non esisteva. Così mi
ritrovai da solo in casa del defunto con la moglie e i due figli, la zia e un sacco di imbarazzo.
Da noi è tutto diverso, nei 2 giorni che seguono la morte è
un concentrato di emozioni, di ricordi, di sofferenza che si alimentano ad ogni
visita che il defunto riceve, in casa e poi in chiesa. E’ difficile che manchi
qualcuno, ognuno a modo suo esprime il proprio cordoglio con la propria
presenza ripetuta.
Zio Tonino era il mio zio preferito. L’ultimo di quattro fratelli. Mio nonno morì nel momento peggiore in cui una famiglia monoreddito poteva permettersi il lusso di perdere un padre. Era durante la seconda guerra mondiale, il cibo scarseggiava, mia nonna si inventò il mestiere di sarta e tutti i figli, bambini, cominciarono da subito a lavorare. Mio padre fu il più fortunato dei quattro, lui andò a studiare in seminario e siccome il seminario non era gratis ma si pagava in natura, gli altri 3 fratelli facevano i sacrifici e la sera mangiavano in tre un uovo, “all’acqua”. Zio Tonino diventò sarto perché il sapone costava caro. Il suo primo giorno da bambino apprendista fu in un’officina meccanica. La sera tornò a casa tutto sporco di grasso e la nonna Rosa, non avendo il soldi per il sapone, dal giorno dopo lo mandò ad imparare il mestiere di sarto.
Zio Tonino era
un uomo di poche parole che, sembrerà strano, andavo a trovare quando avevo voglia di farmi delle lunghe
chiacchierate ed avevo bisogno di farmi somministrare qualche pillola di
esperienza e di saggezza. Non era
difficile trovarlo, era lì, alla
“putea”. Prima in via Roma quasi ad angolo con la Piazza, dalla cui porta a piano strada ogni tanto partiva il
ragazzo con su un braccio il pantalone e sulle due dita dell’altra mano la
giacca, appesa per il centro del bavero, che Zio Tonino si raccomandava di
andare a consegnare con cura a casa del Cliente che attendeva il desiderato
vestito. Poi si spostò di qualche decina di metri in uno dei locali di Palazzo
Carissimo ed infine, da pseudo pensionato, in un piccolo locale alle spalle del
Viale. In ognuna delle sue “putee” c’è stato sempre lo stesso tavolo in legno,
dove appoggiava la stoffa e con un
ago, un filo, una riga ed un gessetto creava un’opera d’arte.
“Il vestito dell’ultimo dei sarti è molto meglio di quello della migliore confezione”, diceva. Come mai nessuno dei figli o dei nipoti abbia intrapreso la sua stessa attività non è perché, come diceva Lui, era una vita di sacrifici. È perché il vestito è un’opera d’arte ed il sarto è un artista, si tramanda un mestiere, non un’arte. Il vestito di un sarto ti avvolge come un guanto, corregge i difetti, ti fa sembrare con le spalle larghe ed il busto eretto, basta un centimetro in più o in meno sulla lunghezza della giacca o delle maniche, sulla larghezza del bacino o delle gambe per donarti le giuste proporzioni. I clienti di mio Zio, che lasciavano fare a Lui, erano tutti slanciati anche quando bassi, avevano tutti un fisico perfetto, avevano tutti la giusta proporzione tra le gambe, il busto e le braccia. La sua soddisfazione era poter dire “ce sa tu ciagghiu duvutu fa a cuddu, cu li sconnu da spalla sciummuta”
Zio Tonino lavorava anche il giorno di Natale. Alla fine del
pranzo natalizio, a casa della Nonna, abbandonava la tavola prima di tutti gli
altri e correva alla “putea” perché di Santo Stefano o il giorno dopo c’era
sempre qualcuno che si sposava e zio Tonino faceva i vestiti per lo sposo e per
molti degli invitati. Purtroppo c’era qualcuno che si sposava anche a Pasqua e
della Madonna della Fontana, i giorni in cui le quattro famiglie dei
quattro fratelli solitamente si riunivano.
Zio Tonino è per me il più grande esempio di attaccamento al
lavoro. Anche gli altri 3 fratelli lo sono stati ma Zio Tonino ha eccelso per
costanza e dedizione. Per la sua continua ricerca del vestito perfetto.
Nonostante per 60 anni abbia fatto sempre la stessa cosa, in realtà l’ultimo
vestito era sempre migliore del suo precedente. Eccezion fatta per quei clienti
che rompevano i coglioni e che dicevano a Zio Tonino come gli andava fatto il
vestito. Lui glielo faceva ma il risultato non era dei migliori. In
quest’ultimo caso il vestito usciva dalla “putea” accompagnato dalle
parole “ce manna dì li
cristiani”. La volta successiva però,
quei Clienti, passavano dietro agli altri fino a quando, spazientiti per le
lunghe attese, cambiavano il sarto.
Il vestito di zio Tonino era il vestito sartoriale, un
classico del tempo che non cambia mai, che non è mai fuori moda, sempre al
passo con i tempi, che obbligava i suoi clienti a non prendere peso altrimenti
come avrebbero fatto con i suoi vestiti. Da 20 anni io ho sempre lo stesso
taglio. È il 2 bottoni e mezzo che non è né un 2 bottoni né un tre. Non ha il
petto troppo aperto ne troppo chiuso.
Va bene quando vanno i due bottoni e quando tornano i tre. I
clienti migliori avevano il
modello di carta e io ero fra quelli. Il vestito andava provato 2-3 volte e poi
era pronto. Ma nonostante il modello
di carta, nonostante il taglio fosse sempre lo stesso, ogni vestito era diverso
dall’altro ed ogni successivo era migliore del predente. Nonostante facesse
sempre lo stesso modello, ogni vestito aveva un qualcosa di diverso per la sua
continua ricerca della perfezione. E quando qualche volta mi vedeva con un
vestito vecchio, perché continuo ad indossare vestiti del 1987 e nessuno lo
potrebbe mai immaginare, o quando
glieli portavo per fargli dare una rigenerata con il ferro a vapore, Lui li guadava e dai particolari che
ogni volta miglioravano i suoi vestiti mi diceva “ah si, questo lo facevo nel
1990”.
Con zio Tonino se ne va un pezzo della storia del lavoro e
dell’artigianato che purtroppo nessuno potrà più replicare, neanche i cinesi.
Ma devo soprattutto dire, osservando la sua famiglia in questi ultimi mesi della sua vita, che con zio Tonino, oltre ad andare via un grande sarto e un grande lavoratore, con zio Tonino sono andati via un grande marito, un grande padre, un grande nonno ed un suocero meraviglioso.
Ciao Zio.